Con il tempo sto imparando che spesso il cuore del mio lavoro sta nel duettare con l’altro mentre racconta la propria storia,trova parole impreviste e con le proprie mani intreccia consuetudini e curiosità e si muove, consapevole di rischiare anche una certa dose di frustrazione, tra sapori e desideri.

La costruzione delle storie ha a che fare con quell’orizzonte di possibilità che la persona che viene in psicoterapia in quel preciso momento non vede e che soffoca con una ripetitiva danza di “non so” e “ma io”.

La persona che comincia una psicoterapia sovente parla di sè usando sempre le medesime parole e si aspetta che, nonostante questo, l’esito della narrazione possa essere nuovo e soddisfacente. Naturalmente, finisce per andare incontro a quella fastidiosa dose di frustrazione che immobilizza la vita.

Il fatto è che, se ogni vita merita un romanzo, come affermavano i coniugi Polster, è indiscutibilmente evidente che la costruzione della storia dentro il romanzo necessita che usiamo un po’ di coraggio, il coraggio di usare parole nuove e di mescolare in modo nuovo anche le parole più consuete.

In certi momenti, d’altra parte, il coraggio pare proprio l’ultima delle risorse a disposizione. E, dunque, la psicoterapia ha tra i suoi obiettivi e sensi anche quello di permettere alla persona di accorgersi pienamente delle proprie risorse, scoprendo anche come il coraggio inaspettatamente gli appartenga già.

La costruzione di storie è uno dei modi per metter mano concretamente a questa esperienza; e diventa ancora più divertente quando la storia è scritta a quattro mani.

Ed è così che nascono racconti semplici, come questo.

“Meditazione sul babbà al rhum”
Quel tipo solitario con il cappello giallo della stagione bella ogni domenica mattina se ne stava seduto sulla solita panchina a est: faceva finta di leggere il giornale e fissava il solito nasone, quello che pisciava acqua gelata ogni volta che qualcuno gli faceva girare la rotella.
E ogni domenica alla stessa ora il tipo solitario con il cappello giallo decideva che era tempo di lasciar perdere quella posa così nevroticamente introspettiva e di passare all’azione.
Così chiudeva il giornale, lo piegava, salutava il nasone e andava a comprarsi il babbà al rhum.

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